Raggiungere il “meta”
Di Adriano Olivieri
Nella vasta e variegata moltitudine di pittura figurativa, prodotta da un po’ di anni a questa parte, pare che un ruolo di primissimo piano, oltre certe sperimentazioni sulla materia – memori ancora dell’informale –, sia stato ricoperto essenzialmente da due tendenze: una che si avvale della fotografia, trascorrendo dalla pittura propriamente iperrealista a quella in cui l’utilizzo dell’obiettivo poggia su ragioni di mera comodità; l’altra, ispirata al surrealismo storico, si concentra sul mondo onirico. Mentre il linguaggio cubista, per esempio, metabolizzato per vie più concettuali che formali, non risulta tuttora utilizzato dai pittori per l’analisi spazio-temporale del reale, la pittura di matrice surreale ha continuato a raccogliere proseliti ai più svariati livelli qualitativi. Questo forse perché la pittura di un Magritte, un Delvaux o un Dalì, pur essendo stata rivoluzionaria nel contenuto si sviluppa in una trama pittorica leggibile, rassicurante per chi oggi aspiri a quell’ipotetico e mai raggiunto definitivo ritorno alla figurazione invocato da troppi anni. Molti pittori contemporanei si sono quindi collegati al linguaggio surreale, come a quello medesimamente attraente della metafisica di De Chirico e Savinio, come un modo per restare nella tradizione pittorica liberandosi nel contempo da lacci troppo vincolanti con la realtà da rappresentare.
Ciro Palumbo agisce nel solco di questa traduzione del linguaggio surreale, onirico e freudiano, realizzando una pittura, della quale non facciamo fatica a rintracciare i riferimenti storici, che s’impernia su un numero limitato di soggetti posti costantemente in dialogo fra loro attraverso variazioni di accostamento, distribuzione, grandezza, forma e colore. Fra questi soggetti ricorrono con frequenza: le stanze senza soffitto, i giocattoli, l’isola di bökliniana memoria, le statue classiche, il mare, la sottesa mediterraneità immersa in un costante e cromaticamente acceso tramonto.
Gli oggetti della messa in scena, improbabili, certo, ma dipinti come credibili, divengono allusione a qualcosa che sta oltre la loro semplice presenza fisica e razionale utilizzo. Di essi l’oggettiva funzionalità, già messa in crisi dalla forma incompleta o abnorme – cosa ce ne faremmo di una stanza senza soffitto o di enormi giocattoli? –, è ulteriormente compromessa dalla reciproca collocazione – una barca sospesa nell’aria – che ne porta in evidenza un contenuto altro, non fisico ma trascendente. Ne risulta una pittura fiabesca, tesa al raggiungimento di un significato ulteriore, a un grado di esistenza spostato altrove, atemporale, astorico e indefinibile: in una dimensione metafisica appunto. In questo modo la pittura di Palumbo costruisce un sostrato immaginifico e trae dalla pittura metafisica il complessivo senso del mistero e del sogno.
Queste opere, con criterio geometrico e salda struttura spaziale, suggeriscono una rappresentazione teatrale e visionaria anche quando non raffigurano direttamente un sipario o una tenda scostata a mostrare un paesaggio. Proprio l’ammiccante orchestrazione, l’assemblaggio di elementi contraddittori e incongrui, tipicamente surreale, ci invita a percepire il dipinto come una personale e intima visione quale potremmo averla assistendo a un nostro sogno. I viaggi chimerici di Palumbo sono favole classicistiche create su misura, sogni liberamente costruiti sulle simbologie oniriche e sulle teorie freudiane dei moti dell’inconscio. Gli interni prospettici, l’ambientazione naturale, le sculture e i frammenti archeologici vogliono fare leva su una memoria antica, su ricorrenti esperienze inconsce, rielaborate in modo da suscitare sensazioni e sentimenti non direttamente e logicamente collegati ai singoli elementi del dipinto ma immersi in un sistema di libera interpretazione della tela, in una trama di riferimenti altamente suggestiva.
Fra questi suggerimenti quello al viaggio è sicuramente uno dei più ricorrenti nel percorso di Palumbo, per il quale il mare ne è indispensabile metafora. Prendere la via del mare o tornare dai marosi è il viaggio per eccellenza: infernale o paradisiaco, vero o presunto, reale o immaginario, breve o infinito, mortale o vitale. La direzione stessa è costantemente messa in dubbio, ossia non sappiamo se essi siano viaggi di andata o di ritorno. Spesso i suoi giocattoli eletti ad autentici protagonisti in luogo dei personaggi umani intraprendono una strada che li porta all’interno del dipinto verso un punto focale rappresentato alternativamente dall’isola, dal tempio o dal teatro, e ne escono trasformati, rigenerati e pronti per una nuova meta. Queste costruzioni, infatti, il tempio in particolare, sono scatole magiche che vogliono figurare il sapere, la memoria e la speranza. Il viaggio quale condizione indispensabile dell’esistere è rappresentato attraverso il fluttuare di onde che lambiscono spiagge o che sciabordano su palchetti di stanze che si affacciano inverosimilmente sul mare. Le linee di fuga dei dipinti conducono quindi a ipotetici luoghi di approdo, delle Itaca o Citera alle quali giungere ma dalle quali ripartire. Queste isole spesso ridotte a scogli ad anfiteatro, rocce sulle quali mettono radici affusolati cipressi, si rifanno alla celebre “Isola dei morti” dipinta da Arnold Böcklin, modello del quale perdono la grave e onirica meditazione sulla morte che aveva affascinato Freud traducendosi viceversa, con il gusto della citazione, in un atollo di vita, di mutazione, di memoria, di riposo addirittura, sul quale si incagliano sfere e parallelepipedi colorati. La letteratura e l’arte è densa di riferimenti a isole reali o immaginarie; da quella che non c’è di Peter Pan, fantasiosa e infantile, alla mitica Atlantide affondata in un oceano che forse coincide con il nostro subconscio. In Palumbo tuttavia l’isola rappresenta la muta custode della memoria di un mitico passato, ricetto di un’immagine mai estinta di classicità che si manifesta esplicitamene nei ricorrenti riferimenti alla Grecia, a Roma e a Canova. Fra i contemporanei Igor Mitoraj è uno dei maestri d’elezione di Palumbo il quale cita lo scultore polacco nelle ciclopiche figure di pietra che campeggiano su alcune tele; figure bendate o strette da lacci che paiono animarsi, prendendo colorito e inoltrandosi in una terra di mezzo, ibrida fra la fissità della roccia e l’animazione dell’essere vivente.
Gli stessi giocattoli e le navi dipinte con gusto grafico nell’impaginato e con colori saturi, formano delle nature morte metaforicamente e letteralmente sospese in un mondo fiabesco non lontano dal realismo magico e da molta pittura figurativa contemporanea russa. La diffusa sensazione ai limiti dell’allarmante è suscitata in particolare dai giocattoli i quali, nel momento in cui perdono la loro dimensione ridotta – adatta a facilitare la manipolazione, il controllo mentale e lo sviluppo dell’esperienza infantile –, cedono la dimensione ludica lasciando il posto a un’impressione inquietante che supera la soglia di attenzione, come fossimo prossimi a un pericolo. Sfere e scatole da circo, colorate con strisce e stelle, escono dal nostro controllo divenendo indipendenti e funambolici personaggi di un mondo altrimenti disabitato. Ma ancora una volta Ciro Palumbo si attiene a un universo nell’insieme pacifico, a tratti ironico, dove anche questa sensazione di allarme viene contenuta in situazioni trasognate grazie alla costante presenza di caldi cieli serali, stellati o dominati da grandi lune.
La recente produzione pittorica di Palumbo si estende al di là della ricerca fin qui descritta attraverso un tema comparso progressivamente a partire dal 2004: le sospensioni. In sintonia con la mostra permanete di Palazzo Oddo, intitolata “Magiche trasparenze” e dedicata ai reperti archeologici portati alla luce nella zona di Albenga, Palumbo intitola a sua volta “Magiche sospensioni” la propria mostra. Isole, navi, statue, case e giocattoli, danzano sospesi nell’aria in una dolce levitazione, come bloccati nell’istante prossimo a un accadimento. Sensazione di enigma e di mistero aumentata dall’aspetto delle statue sempre in bilico fra il mondo dei vivi e quello dell’eterna fissità. La pittura di Ciro Palumbo insiste quindi su un percorso che in questi anni ha prodotto tanta pittura figurativa partendo, nel suo caso specifico, da alcuni maestri storici per poi deragliare progressivamente in percorsi alternativi che si sono avvalsi anche del materismo – sulla falsariga informale – del collage, dell’inserzione di parole scritte e di mirati riferimenti alla fotografia e al cinema.
-----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------