L’INQUIETUDINE DEL SOGNO
Ciro Palumbo è un artista che ama la provocazione, ma non tanto nel senso di una sfida, quanto come intento di sedurre. Egli proviene, o per meglio dire, si è immesso da tempo nella tradizione metafisica: gli interni abitati solo da oggetti inanimati e da sculture classiche, i paesaggi marini con un’isola, sono evidenti richiami a Giorgio de Chirico e ad Arnold Böcklin. Ma nel suo modo di concepire l’arte pittorica – lavorio continuo e meditato, fatto di applicazione, di studio del colore e degli spazi, di preciso calcolo delle alternanze fra pieni e vuoti, di calibratura dei toni, dell’ombra e della luce – egli lascia anche trapelare la sua devozione ai maestri del museo della storia dell’arte italiana, e più in particolare alla tradizione rinascimentale, quando la creazione artistica rispondeva a leggi prospettiche e compositive ineludibili. Le sue espressioni figurali riferiscono quindi di una cultura profondamente assimilata e di un percorso meditato e coerente alla ricerca dei sottili legami che collegano l’arte classica alla modernità.
Da un punto vista strettamente stilistico, egli non sembra appartenere al nostro presente – del resto la sua eleganza è felicemente lontana da certe esibizioni che ci sottopongono gli artisti di oggi – e tuttavia va sottolineata la qualità concettuale della sua ricerca tematica e visiva, che si svolge in un contesto impregnato di emotività e di sensibilità tutta contemporanea. Quando affronta la tela non lascia nulla al caso: i suoi pigmenti variegati e aggreganti completano un’intensa trama segnica, perfettamente preordinata. Le isole, il mare, gli oggetti nelle stanze vuote, le statue di memoria ellenistica, si compongono in strutture rigorosamente equilibrate, sia dal punto di vista spaziale, sia della coerenza contenutistica, dove le immagini traducono i simboli onirici in allegorie dell’assenza e del silenzio. Le finestre che si aprono verso il mare, le costruzioni circondate dagli alberi, i cieli spesso ombrosi di nuvole, segnano un universo di linee, di masse, di colori forti, di stesure tutt’altro che semplici.
Ma questo non è sufficiente per continuare a ripetere la sua adesione agli stilemi della metafisica, in quanto i suoi fondi contrastano con le masse cromatiche uniformi e asettiche, che caratterizzano gli oggetti in primo piano, seguendo una linea tonale diversa e mossa da sovrapposizioni di colori ben leggibili. A livello esclusivamente visivo, se si accolgono otticamente queste campiture, ci si accorge come Palumbo abbia anche seguito la lezione tecnica dell’Informale.
Ciro Palumbo non è solo un pittore, ma di fatto un poeta che riflette, agisce e compone per coniugare metafore sull’inafferrabilità del tempo e l’incommensurabilità dello spazio, mostrando quindi la sua capacità di approfondire l’osservazione non tanto della natura, quanto delle impressioni immaginifiche che provengono dalla memoria di un tramonto o di un’alba sul mare. Emblematica a questo proposito l’assenza totale dell’uomo: solo effigi statuarie evocano i sentimenti congelati di amori inesprimibili.
Il vuoto e l’assenza però si aprono talvolta al gioco, insinuando la malizia di un teatrino, di una barchetta, di un Pinocchio, di una palla, di un cappello da illusionista. In tutto questo c’è forse una rievocazione dell’infanzia, come momento magico di verità. A questo si aggiunge il sospetto che anche le citazioni classicistiche vogliano rimandare a un mondo arcaico più sapiente e più semplice da capire, a una sorta di infanzia dell’umanità, popolata da demoni e divinità protettive. Un mondo legato ai cicli della natura di cui rimangono solo le immagini archetipiche dei nostri sogni.
Paolo Levi
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