LE NUTRIENTI E LIETE FAVOLE METAFISICHE DI CIRO PALUMBO
Un eccellente critico e amico Tommaso Paloscia, aveva il compito di stendere il saggio critico per questo catalogo di Ciro Palumbo. La recente scomparsa ha impedito a Paloscia di concludere il testo che aveva iniziato. Con vera commozione presentiamo qui quanto, con modo illuminante come sempre, aveva appena scritto.
P.F.L.
Se ogni quadro è un messaggio, quelli di Ciro Palumbo, - italiano nato a Zurigo, formatosi nell’ambiente nordico, oggi ancora giovane, giacchè appena quarantenne, già esperto pubblicitario e grafico, e nonostante le sue molte personali rassegne oggi per la prima volta proposto a Ischia – di messaggi e di ingredienti tematici e pittorici, ne contengono davvero parecchi. Soprattutto si staccano dal panorama corrente dell’arte italiana per accamparsi con una indiscussa personale originalità.
Guardiamo le sue tele: quasi tutti interni, ma che danno per finestre e pertugi su esterni inquieti; il mondo contenuto in curiose scatole, ma poi aperto sulla natura e sul paesaggio; cieli e lune, bruni e mai solari, anzi con refoli di tempesta; piramidi e sfere qua e là con calcolata accidentalità situati; alberi trasferiti in luoghi chiusi; barche e lune; un silenzio e un’atmosfera che si percepiscono al primo sguardo; la radicale e totale assenza della figura (cose e luoghi dove è rimasto ancora però il colore e l’impronta delle presenze): il tutto in una pittura precisa, perfino lenticolare, lieta della sfarzosa vivacità dei suoi colori purissimi, ricca di muri, di drappi, di onde. Un teatrino ilare e allusivo, di infinita suggestione che promana per dir così un che di favola e di ritrovata soffitta di mai perduti oggetti.
Questa, se la pittura si potesse descrivere e raccontare (ma non si può) è la scena che Ciro Palumbo ci propone. Da dove deriva tanta fantasiosa inventiva, tanto ilare e ambiguo bisogno di raccontare storie senza figure?
Se vogliamo, come suole farsi negli onesti quadri critici di un artista, cogliere influenze e derivazioni per situare anche storicamente e accademicamente un pittore lungo le stagioni e nel suo tempo, si può dire che per gradi diversi di importanza la derivazione è almeno triplice: in senso puramente tecnico è una derivazione in parte ripresa dall’arte del pubblicitario, in parte dall’arte del cinema. Ma per venire alla derivazione più decisiva e profonda, essa si rifà a grandi stagioni dell’Europa pittorica novecentesca avanguardista e soprattutto a quell’italianissimo nuovo partito della pittura che è la Metafisica, che più tardi si scioglierà nel liquido e onirico surrealismo. Provetto pubblicitario, agli inizi della sua ancor giovane carriera e prima di dedicarsi totalmente, con un deciso salto di qualità alla pittura, Ciro Palumbo ha messo nel carniere delle sue abilità, tutto quanto la percezione visiva pubblicitaria – che è oggi di altissimo livello e che non di rado raggiunge una sintesi espressiva non lontana dall’arte – sa creare e suscitare: la regale presenza degli oggetti, la loro presentazione insieme ilare e solenne, lo spiazzamento acuto che sa generare nel teatro delle emozioni individuali e collettive; infine l’accattivante gradevolezza della scena complessiva che deve trasferire il consumatore nel regno delle illusioni possibili. Tutto questo, checchè ne dica l’arcigna etica degli intellettuali, è una nuova e conquistata dimensione espressiva a cui l’occhio contemporaneo si è abituato grazie all’esercizio quotidiano della percezione visiva dei manifesti, della televisione, del cinema e di ogni altro mezzo di comunicazione.
Nei dipinti di Palumbo v’è anche un influsso dell’ultima e più moderna forma d’arte: il cinema. Si rivela soprattutto nei tagli della composizione, negli assemblaggi di altissima qualità scenografica, nella capacità di determinare con pochi elementi un ambiente insieme inedito e sorprendente, e infine nella visione del punto prospettico che in Palumbo ha talora impercettibili ma decisivi spostamenti.
Quanto detto finora fa parte di un puro, sebbene decisivo, trovarobato del mestiere, che tuttavia non è da deplorare o ignorare, ma che non dice né spiega il salto radicale e decisivo fra l’impegno del comunicare emozioni con fini secondi e invece il libero dono della creazione dell’arte, qual’è la pittura migliore dello stesso Palumbo. Conviene dunque soffermarsi sulla più radicale delle derivazioni: quella visiva e percettiva che viene dai grandi antecedenti artistici osservati come nutriente sostanza, ma mai imitati dal nostro artista.
Qui cade per forza, e ogni critico di Palumbo lo sostiene, la lunga meditazione sulla pittura storicamente definita metafisica. Essa nacque, ben si sa, verso il secondo decennio del Novecento ed ebbe nome e sostanza soprattutto dal geniale talento di Giorgio De Chirico salvo poi per un non lungo periodo – ma con persistenze tuttora vive – esser condivisa da artisti come Alberto Savinio, Giorgio Moranti, Carlo Carrà, Filippo De Pisis. Genialmente De Chirico intuì che esisteva un territorio esplorabile dall’artista che non coincide con quello della comune esperienza, non è contenibile nei confini della realtà fenomenologia ma si sostanzia di una vitalità magica, si carica di enigmi, si colloca in una dimensione in cui il sogno è suggeritore di inedite ed inquietanti simbologie. Caratteri che più tardi saranno sviluppati dalle correnti surrealiste. Caratteri anche che ponendosi in polemica con la normale percezione del visivo condivisa dagli artisti precedenti, possiedono una carica di ironia, e forse di scetticismo che peraltro nulla tolgono alla sua straordinaria capacità evocativa.
Eccoci dunque all’odierna pittura di Palumbo, la quale non manca anche nella molteplicità delle sue suggestioni, di una forte intenzione ludica, cioè di creare, con la sua vertiginosa capacità combinatoria, anche un’atmosfera di gioco e di allegra e ilare vacanza (e insieme impegno) da parte della mente di chi contempla.
Si è parlato per la pittura di Palumbo di forti persistenze simboliche, ricorrendo ad alcuni stemmi dell’araldica palumbiana come per esempio l’insistita presenza del melograno. Francamente non ci sembra condivisibile questa presunta densità simbolica. Convinti invece che alla scuola del suo maestro napoletano Nunziante grazie alla quale risaliva per li rami a Savinio e De Chirico, Palumbo abbia derivato quel senso che lui stesso definisce di “aroma metafisico” e di “profumo” (dunque una volatilità quasi corporea e non una simbologia mentale) che tende piuttosto a suscitare atmosfere di ambigua eleganza e non sintassi di pensiero portatrici di particolari messaggi. Anzi, uno dei meriti più evidenti della pittura di Palumbo sta proprio nel non caricare mai le sue lindissime opere, per quanto suggestive di una chiara ambiguità, di quei caratteri pesantemente simbolici e percettivamente stucchevoli che tanta pittura odierna che crede di rifarsi all’interiore immette sulle tele come incongrui fantasmi di una percettività visiva da cinema horror di terza mano.
Eccoli qui dunque i bei quadri di Palumbo. Ognuno ci propone uno spazio vuoto, deserto di figure e silenzioso, dentro il quale vanno a sistemarsi una serie di oggetti, in modo spaziante e incongruo, ma con un matematico equilibrio dispositivo; con una calcolatissima esattezza di particolari; oggetti che prima di tutto sono punti e volumi nello spazio per divenire poi grammatica del quotidiano ma intenzionalmente stravolta. Quest’effetto di straniamento, lieto e stupefatto, trova nel talento di Palumbo una sempre nuova capacità combinatoria di invenzione, si situa su un crinale che da un lato propone il partito ludico, dall’altro la solennità di ciò che è ambiguo, dove l’evidenza e la datità si confrontano misteriosamente con il passato e con la memoria.
Uno dei critici più acuti di Palumbo, Vittorio Sgarbi, ha parlato anche di altri influssi: Boeklin e anche Magritte e Dalì. Da ognuno traendo qualcosa, sempre in funzione di una fantasia bizzarra e inesauribile, sempre attento ai più segreti moti psichici, sempre coniugatore di libere associazioni mentali. Lo stesso Sgarbi ha parlato per Palumbo di “realismo fantastico”, di “enigma”, sicchè ormai l’osservatore che si avvia a visitare questa mostra ha un sufficiente bagaglio per leggere con occhio consapevole i bei quadri (che col tempo si sono fatti più grandi per dimensioni) di questo giovane e valente artista. “Fantasia e realtà giocano a rimpiattino” – nota il Prof. Coppola – “così come memoria e artificio si passano la mano, per sortire opere dal segno nitido e puro, opere che ci ammaliano”.
Ma tutto quanto si è detto appartiene e si esprime alla precisa esecuzione del mestiere pittorico. Vale allora la pena notare come la campitura dei volumi nello spazio sia figlia in Palumbo di una eccentricità geometrica perfettamente calcolata in vista di suggestioni che abbiamo detto perfino filmiche. Come la limpida squadratura dei volumi si opponga e si connetta alle liquide curvature di altre forme, e come l’hic et nunc delle cose rappresentate sappia inquadrarsi su una scena che in ogni opera si fa improvvisamente smisurata per cieli o per acque, in un paesaggio fosco e memoriale, opposto alla calda seppur ambigua domesticità degli interni.
E’ pittura quella di Palumbo che massimamente si esprime nella varietà, nei toni, nell’intensità e nel contrasto dei colori, quasi sempre puri. Colori per lo più smaglianti e brillantissimi, ma, a volte, lunghe distese di riposanti giallo-rosa, grigio-verde, beige. Squillano qui i rossi accesi di certi drappi, i rubini, i verdi, gli incongrui e bellissimi rossastri cumuli di nubi, i caldi incarnati delle antiche statue immesse negli ambienti più attuali.
Cromie che creano una sorta di rara essenzialità favolistica e che inventano scenari e atmosfere di originale timbro. Nelle tele di Palumbo, l’aria circola anche negli interni più angusti, con un respiro di cielo e di mare che pochi artisti sanno raggiungere. E l’insistita contrapposizione fra la quiete degli interni e un certo tempestoso preludio di bufera nei paesaggi, creano una dualità di grande suggestione.
Geometria di strutture, straniamento e incongruità di oggetti presenti, perduranti segni della classicità assemblati con oggetti domestici, presenze di balocchi e di funebri cipressi: un grande trovarobato di contraddizioni e insieme di scoccanti contrari: tutto questo dà sostanza a una pittura di altissima manualità (quel passare nel dipingere dall’olio all’acrilico) e di dotatissima consapevolezza culturale (si vedano ad esempio certe citazioni boekliniane dè “isola dei morti”), situate però con una levità che ne trasforma il significato.
Queste poche note vogliono solo introdurre all’arte di Palumbo che si pone come una delle più nutrientemente felici, concettualmente stimolanti, e pittoricamente vittoriose sulla scena delle proposte artistiche contemporanee. Valga a questo punto aggiungere che l’arte di Palumbo si accampa in una dimensione molto sua, solitaria e originale. Essa infatti supera, senza dimenticarle (anzi se n’è visto l’alto nutrimento) i grandi filoni del pittoricismo italiano, sia del classicismo rinascimentale, sia del verismo ottocentesco, figlio del naturalismo europeo.
Dall’altro lato Palumbo azzera il visibilio di sperimentalismi (e potremmo anche dire di escogitazioni) in cui la pittura contemporanea si è impantanata e tuttora giace. Palumbo è uno dei pochi artisti che si rifà autenticamente alle grandi anticipazioni delle prime avanguardie novecentesche, ne coglie e si nutre dei succhi migliori, reinventandoli con una modernità che gli deriva anche dal suo alto magistero percettivo di grafico. Infine egli ridà alla pittura il suo primario significato di grande raccontatrice di favole visive, capaci di confortanti letizie nell’osservatore ma anche pioniera di complessi itinerari emotivi e psichici. Non disdice infine che questa pittura, a suo modo ghirlandesca e gozzoliana, possieda anche un’alta suggestione scenografica e, senza mai scadere nell’illustrativo, sappia porsi come favola contemporanea e possa essere, al livello più basso della sua comprensione, divenire strumento felice ed ammiccante di un arredo visivo contemporaneo ahimè troppo spesso scaduto a semplice confessione solipsistica di personali fantasmi incapaci di attingere l’universale linguaggio dell’arte.
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