LE MAGIE PITTORICHE DI CIRO PALUMBO
Dalle Piazze d’Italia all’Isola che non c’è
Architetture inventate con interni che dal vano di una apertura praticata in una parete conducono lo sguardo sul mare: A naufragar nell’infinito. O, più direttamente sull’obiettivo che è quasi sempre il mare, un esterno nel quale si inquadrano isole stupende: Dopo di noi il sogno…Perduta isola…Un veliero sull’isola dei sogni…L’Isola dentro…Paesaggi improbabili…La magia fatale…L’isola dell’amore… Ci si avvede tuttavia d’esser sbarcati all’improvviso, e rapidissimamente, su una certa isola che non c’è la quale pur dista – fantasma irraggiungibile dalla ragione – cinque secoli dalle nostre spalle. E mai una panoramica così vasta ci è parsa di averla percorsa in tempo tanto breve. Quasi ingoiata. Così come brevissimo è lo spazio (atemporale) che dalla metafisica trasferisce l’attenzione e lo stupore in quelle meravigliose immaginazioni in cui regna incontrastata l’utopia. Da Giorgio De Chirico, dunque, con un balzo felino all’indietro, che conduce l’esplorazione fino a Tommaso Moro (dall’inglese Thomas More). Magari con il tramite moderno di una rappresentazione filmica disneyana, guidati da un nocchiero d’eccezione. Nientedimeno che Peter Pan.
Alt! Un momento solo per chiarire che si sta vagando, suggestionati al limite del delirio, fra le fantasticherie create dal pennello del quarantenne Ciro Palumbo; vale a dire un pittore nato in Svizzera da genitori italiani, residente in provincia di Torino ma di sangue partenopeo; la qual cosa, oltre la trasfigurazione costante con cui egli riesce a personalizzare la realtà – quella che gli è stata definita “magica” dalla critica – giustifica un altro incantesimo che ci raduna a visitare la mostra realizzata dal pittore utopico/metafisico nell’incanto dell’isola di Ischia. Il che accade, certo, anche per inevitabile intervento della sorte, ma soprattutto per i meriti della felice creatività dell’artista. E a dire il vero sembra che il viaggio del suo realismo magico intrapreso partendo dall’atelier di Torino, prosegua senza soluzione di continuità qui, nel golfo di Napoli: all’insegna di Tommaso Moro. Anzi di San Tommaso Moro fatto decapitare nella torre di Londra da Enrico VIII del quale era stato supremo cancelliere. Ed elevato da Pio XI alla gloria degli altari nel 1935. Ossia quattrocento anni dopo il martirio.
E’ chiaro che la metafisica dechirichiana sia stata la protagonista del primo incontro nel quale Palumbo ha raccolto il messaggio divenuto rapidamente più carico di idee e di sensazioni da ritrasmettere col proprio segno e i propri colori. E di qui l’esercizio pittorico è avanzato fra sogni e interpretazioni dell’irreale in genere, più che del reale, senza ostacoli che procurassero remore alla sua inventiva. O meglio alla capacità di manipolare a piacimento quelle suggestioni ispiratrici. Dominate dal mito, sulla scia dei suggerimenti insiti nelle creazioni dell’inventore della Metafisica. Rifletto ogni tanto su alcune riproduzioni di quadri dipinti da Palumbo solo qualche anno fa. E mi vengono a mente le sue vivacissime trasfigurazioni di pensiero ricavate da qualche “piazza d’Italia”, disegnata da architetture nelle quali le reminiscenze classiche del greco De Chirico sono state trasfigurate in paratie semplici eppure cariche di intenzioni altre. Con, al centro della raffigurazione spaziale, una scatola rettangolare ampia e carica di oggetti coloratissimi a sostituire, e a rappresentare forse, quella scultura sdraiata, classicheggiante, che il Maestro di Volos proponeva come punto centrale dell’attrazione suscitata nell’osservatore dai punti di fuga e dall’incantesimo di quell’enigma donde è scaturita la “piazza d’Italia”. E quello scatolone e i giocattoli mi è parso di reincontrarli spesso anche quando la Metafisica ha cominciato a modificarsi in questa pittura e a mostrare, non so quanto consapevolmente, una simpatia vieppiù intensa nella varietà dei sogni che invadono la mente del pittore.
L’utopia dell’isola che non c’è di cui Tommaso Moro espresse in un famoso libro, anche attraverso preziosi dettagli, le sue teorie di filosofia politica, ha coinvolto intere popolazioni tentate di smentire il valore di irrealizzabilità attribuito a quell’utopia. E in alcuni casi, in conseguenza di importanti movimenti rivoluzionari nel sociale, ne sono state fatte applicazioni concrete nella realtà, ma con esiti tutt’altro che felici, come la storia recente ampiamente dimostra. Altri ne sopravvivono con l’esercizio di costrizioni che limitano gravemente le libertà fondamentali dell’uomo. Per cui l’isola della felicità sociale continua a disertare la realtà di questo mondo.
Palumbo a mio avviso, è poeticamente inebriato da un siffatto modo di sognare con i colori e vi trova la via dell’iperbole che il sogno sopporta agevolmente fino ad offrire motivi di piacevolezza e di divertimento. V’è tuttavia negli esiti sostanziali della sua ricerca un raggiungimento estetico di notevole livello. Ed è qui che l’obbiettivo dell’arte sua trova l’appagamento delle aspirazioni e dei desideri fortemente inseguiti. E coinvolge anche l’osservatore smaliziato nell’universo di una fantasia che tova alimento negli stessi ricordi dell’artista, avvinto – e lo dichiara – dall’amore istintivo verso il racconto, verso le storie. E che cercherebbe di volta in volta di coniugare col ricordo, che per sua stessa natura stempera, addolcisce e trasforma, gli episodi reali, le fantasticherie offertegli da un temperamento che del fantastico si è nutrito sin da ragazzo. E continua ad alimentarsene. Disinvoltamente. Per cui ogni dipinto, egli afferma, dovrebbe sottintendere una introduttiva didascalia impropria che, come in tante favole, ci diceva e ci dice ancora C’era unavolta. Poc’anzi ho parlato di disinvoltura perché il pittore Ciro ha la possibilità di operare in modo tranquillo nel difficile compito assunto di trasformare in immagini le sue meravigliose fantasie, avendo a disposizione una straordinaria preparazione tecnica di cui si serve come e quando vuole. Per di più la dotazione naturale che ne fa un colorista di rilevante capacità, lo aiuta enormemente a inseguire il miraggio sempre vigile sul suo impegno di suggerire al riguardante qualcosa di non riconoscibile all’impatto, ed è poi la cartina di tornasole nella reazione chimico/mentale piuttosto complessa, e di maggiore efficacia rispetto a quella di indurre l’amatore o l’esperto all’accettabilità diretta della sua poetica. Lo conforta nell’operazione intuitiva la immersione dei soggetti in atmosfere credibili e pur colme di suggestioni che, quanto ad attendibilità, ne sono scarsamente dotate.
Leggo nell’ottimo disegno di base (realizzato in acrilico, mentre la stesura finale è sempre dipinta ad olio) un disegno-impianto capace di sorreggere agevolmente i dipinti soprattutto nella disposizione che utilizza tutti gli spazi disponibili, o vi ritrovo l’insegnamento recepito da Palumbo frequentando lo studio di Antonio Nunziante, suo valido maestro e pittore molto capace e, come lui, di origine napoletana e residente da tempo a Torino, in quel di Giaveno. Mi è capitato di interessarmene scrivendo dell’arte sua nel catalogo. Trovo naturale che le cose da noi apprezzate in un certo momento della vita debbano riapparire prima o poi ai nostri occhi, magari a restituirci dopo molti anni la gioia di aver raggiunto nel passato qualche certezza. Allora ci accorgiamo, fuori tempo massimo, che la più autentica certezza risiede comunque nella insoddisfazione. Come è stato autorevolmente affermato…
Il permesso alla pubblicazione di questo scritto incompiuto, ci è pervenuto unitamente al testo, dalla Signora Nora, moglie e compagna dell’indimenticabile Maestro Tommaso Paloscia, dal quale per lunghi anni abbiamo imparato a leggere meglio la pittura.
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