Vittorio Sgarbi

Ciro Palumbo è un affabulatore di momenti astorici e atemporali. Ci troviamo qui di fronte a una pittura dove l'ispirazione metafisica si esplica in un insieme immaginifico e surreale, in una messa in scena di elementi figurali che non riconducono a significati precisi.

L'artista mette in atto un gioco plastico e visionario di presenze, che rivela esplicitamente una consonanza con Giorgio de Chirico e con Alberto Savinio.

Dal primo, Palumbo ha ereditato la bella stesura pittorica, il senso geometrico della struttura spaziale, e da Alberto Savinio il modo curioso di ammiccare con le immagini, in un gioco voluto e ben calcolato di contraddizioni. La caratura concettuale di queste composizioni è decisamente intensa, ma questo non basterebbe a reggere una disamina critica, se non si basasse su un intingolo pittorico che privilegia i toni intensi e senza sfumature, applicati con maestria sulla struttura narrativa del disegno preparatorio. Meditativo nel procedere, questo artista usa i colori acrilici ma, come spiega egli stesso, il primo abbozzo nasce dal colore ad olio. Capace di esaurire tutte le potenzialità della tavolozza, le sue velature controllano ed esaltano la stesura cromatica, che gioca sempre di contrappunto fra tono e tono.

Ogni quadro rievoca la classicità in un assemblaggio apparentemente incongruo di elementi compositivi plasticamente forti. È un impianto che poggia su elementi figurali tipici della metafisica dechirichiana, interni geometrici, sfondi naturali, sculture marmoree, ruderi e colonne squadrate, ma anche sul giocoso accostamento a balocchi colorati, barchette, palloni, e tasselli da costruzione. Lo spazio che circonda questo mondo colorato è però ampio e in gran parte abitato dal vuoto, che allude ad assenze senza ritorno. Sono architetture senza tempo, dove la qualità pittorica si rivela in una delineazione estremamente precisa, senza sbavature. Pittore di tradizione, che si rifà evidentemente alla lezione psicanalitica sulle simbologie oniriche, egli non insiste tanto sull‚immaginario archetipico, quanto sull‚esplicitazione freudiana dell‚inconscio, sull'esplorazione del rimosso. I suoi sogni sono costruiti a tavolino, come la narrazione di una irrealtà ormai acquisita alla consapevolezza.

Sono fiabe colte che si avvalgono dei reperti della Grecia antica, quella dei viaggi e degli assedi omerici, ritrovati in tutto il loro sapore fiabesco, quindi provocatoriamente estranei a una seriosa lettura critica o filologica. Infatti, e in modo persino ossessivo, egli ripete in molte composizioni il tema dell‚isola, già caro a Böcklin, ma non più tanto nel significato intimista, privato e nevrotico di un sogno da cui non si riesce a uscire, quanto piuttosto col gusto di una citazione, di un omaggio ai maestri e ai poeti che hanno ripreso quel tema, trasformandolo in una sorta di metafora dell‚esplorazione e del tentativo di appropriazione dello spazio.

O forse questa inquietante presenza in mezzo al mare non è neppure una citazione culturale, quanto piuttosto il senso di una meta utopica, fortunatamente irraggiungibile, di un viaggio nella conoscenza di sé, dove conta molto di più il percorso dell‚arrivo. In questo consiste anche il senso del fare arte, che si fonda proprio sull‚inesauribilità della ricerca, sulla natura incompiuta della creazione umana. La classicità metafisica di Palumbo ci fa dunque riflettere sulle ragioni stesse della nostra cultura così radicata nel Mediterraneo, nel rapporto fra il cielo il mare e la terra, fra il passato e il presente, fra la delusione e l‚illusione, fra la follia e la ragione.

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