UN FUNAMBOLO DEL COLORE
TRA STUPORI, ENIGMI E SOGNI
Il mondo di Ciro Palumbo? E’ un mondo fatto di antiche seduzioni che catturano l’immaginario collettivo grazie ad un immanente e inquietante silenzio che permea dipinti dal taglio surreale. Immagini dalle atmosfere impalpabili, capaci di rallentare il tempo e il flusso vitale. E che irretiscono l’inclito e l’incolto con quella carica suadente che sprigiona malie dei tempi andati.
Ma a... catturare il nostro Ciro in età gentile, asservendolo “nunc et semper” alla cosiddetta buona pittura, è una mostra dedicata alcuni anni fa all’arte russa, anzi agli impressionisti d’oltre cortina operanti tra la fine dell’Ottocento e i primi lustri del secolo successivo. Davanti a quei dipinti, dall’intrigante manualità e dall'eccelsa valenza pittorica, il giovane visitatore rimane di stucco. E capisce all’istante che deve cambiare rotta se vuole lasciare un segno nel difficile e variegato regno dell’Arte. Si rende conto insomma che qualsiasi improvvisazione va bandita se si intende usare a puntino design e colore. E allora decide di punto in bianco di mettersi seriamente al lavoro, di andare a bottega come si faceva un tempo. Entra di conseguenza nell’entourage del maestro Antonio Nunziante, di origine napoletana. E qui, oltre ad apprendere i primi rudimenti, ha l’occasione di ammirare con crescente attenzione e simpatia opere di Boelkin, De Chirico e di esponenti del surrealismo, come Magritte e Dalì. Di quest’ultimo, pur con qualche riserva su talune cadute di tono, apprezza in particolare la fantasia bizzarra e inesauribile del genio.
Quanto a De Chirico, gli rimane impressa un’invettiva del “pictor optimus” verso chi critica la sua maniera di stare davanti al cavalletto: “Di fronte alla masnada internazionale dei pittori moderni che s'arrabatta stupidamente tra formule sfruttate a sistemi infecondi, io solo, nel mio squallido atelier della rue Campagne-Premiére, comincio a scorgere i primi fantasmi di un'arte più completa, più profonda”.
Ma le simpatie dell'apprendista vanno soprattutto ai fantasmi di Alberto Savinio, forse perché più introverso del fratello; e anche perché più eclettico e più attento ai moti della psiche. E in Savinio ritrova certe affinità elettive che lui scopre per caso, rimirando alcuni suoi vecchi disegni; opere dove il sogno si pone come spazio di libere associazioni mentali e nelle quali fa capolino quella innata giocosità, quella tipica sdrammatizzazione degli eventi che sfocia spesso in estasi ludiche dagli accenti chiaramente circensi.Non è finita. Nuovi stimoli Ciro li riceve dalla pittura contemporanea grazie a maestri del calibro di Riccardo Tommasi Ferroni, e anche da altri seguaci della nuova figurazione italiana. Quasi un richiamo all’ordine, con precisi riferimenti alla figura e al mondo classico, dopo anni di monopolio della pittura concettuale e astratta.
E così, in virtù di tali stimoli, Palumbo prende il coraggio a due mani per passare il Rubicone e approdare a quel “realismo fantastico” che gli consente di recuperare la fascinosa verità delle cose più semplici e più autentiche. Ironico e sibillino, fa dell’enigma l’icona costante della sua arte. E, a guisa di un burattinaio medievale, muove i fili invisibili dei suoi oggetti quotidiani, sigillati in un silenzio metafisico: cesti di frutta, libri su mistiche vette, finestre aperte su paesaggi dell’anima si alternano ad oggetti che dimorano nel suo studio: giocattoli e cavalli di legno, conchiglie, scatole. E persino chiodi. Tutti coinvolti, chi più chi meno, in una girandola di abbagliante suggestione e di espressività incisiva in cui il dipinto assurge al ruolo di mattatore, assumendo le sembianze ora di un tomo ora di un paesaggio che ammicca, in lontananza, da una bifora dei secoli bui.
Bisogna riconoscere che il paesaggio del Nostro ha pochi addentellati con la realtà in quanto frutto di un’indagine introspettiva di cui solo l’interessato conosce la chiave di lettura. E, lungi dall’esserne geloso, la offre a noi per farci gustare un “amarcord” di sapore proustiano dove la mente, obliosa dell’ora che passa, riesce a vivere un incanto senza spazio e senza tempo. E lui? Questo funambolo del colore non fa che sorridere, sornione, davanti al nostro stupore per quella teatralità scenica che occhieggia da un verone o da un loggiato.
Fantasia e realtà, dunque, giocano a rimpiattino, così come memoria e artificio si passano la mano, per sortire opere dal segno nitido e puro; opere che ci ammaliano con le loro tessiture dell’età di mezzo: intrighi, misteri, stupori. E’ il gioco a recitare quasi sempre il ruolo di protagonista. Ciro ha cominciato a giocare con i figli, ad intrattenere i suoi quattro pargoli con racconti e fiabe d’ogni genere. Poi trasferisce quel mondo sulle sue tele, mescolando gli stessi giochi ai sentimenti, quali la melanconia e l’enigma. In piena sintonia con Ernst Ludwig Kirchner secondo cui “il mezzo della pittura è il colore, come fondo e linea. Il pittore trasforma in opere d’arte la concezione sensibile delle sua esperienza“
E per centrare in pieno l’obiettivo Ciro Palumbo ricorre all’ausilio di colori smaglianti, che brillano di luce propria: il rosso cadmio, il rubino vermiglione, il verde phtalo: Per non parlare del blu con tutte le sue "nuances": dal blu di Sevres, al cobalto, all'azzurro-mare. E sempre per giungere celermente al traguardo si serve dei suoi stessi “pensieri" - o, per meglio dire, liriche - che danno la stura ad interrogativi esistenziali: “La sfida è di fronte/ attraverso il mare/ ampio,/ aperto,/indaco e assoluto/. L’aria e la brezza/ sottile finemente/ mi lusinga/ e come sirene/ le sue carezze/ mi arrivano./ Sei con me?”/ E ancora. Eccolo dipingere un poltrona vuota sulla quale è adagiato un plaid mentre la luna occhieggia sullo sfondo. Insomma, riesce a rendere con le immagini ciò che urge nel suo io: "Il vuoto inonda la stanza e l'abbandono/ è raccolto dalla pallida Luna/ancora una volta spettatrice di un mistero!/". Un patente invito alla lettura e alla meditazione, per nulla avversato dalla presenza di simboli ludici, quali la palla o la piramide. Anzi, c'è quasi un'esortazione a liberare il fanciullo che alberga in noi. Perciò Ciro non esita ad assoldare due comprimari che hanno allietato la felice stagione dell’infanzia: Pinocchio e Peter Pan. E insieme con loro dà vita a quel travestimento oggettuale che incanta grandi e piccini.
Ad un certo momento, però, subentra la paura, ossia il timore, più o meno fondato, che quegli oggetti possano evadere da quel mondo onirico. Ciro Palumbo potrebbe ormai vivere di rendita con tutti quei sogni a sua disposizione. Ma, invece di tirare i remi in barca, affronta con coraggiosa baldanza il periglioso pelago, inventando lì per lì dei meccanismi che possano tamponare la breccia, impedire qualsiasi via di fuga. Di qui la sfera imbrigliata in un quadrato, o la piramide costretta a starsene buona buona in una fossa di sabbia e puddinghe.
In definitiva, è sempre il gioco ad avere il sopravvento; un gioco che esorcizza anche la paura. E che dà spazio a quel realismo magico che permette al nostro eroe di pilotare le cangianti “performances” del travestimento con un abile mescolio di carte. A guisa – e forse meglio - del giocatore di bussolotti di papà Manzoni
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