Le Roccaforti del sogno
Il potere dei sogni. Così meravigliosamente smisurato, il potere dei sogni, da suggerire fiabe all’orecchio omerico di cantori di ogni dove, da sublimare l’essere alla dimensione semi-divina che tutto concede e può. Può creare, vivere di un’intensità millenaria, modellare paesaggi mentali in cui i protagonisti si alternano ma condividono, sempre, un non spazio, in cui l’unico escluso è il reale. E quando a sognare sono i pittori, con la netta volontà di raccontarli i sogni, attraverso linguaggi espressivi che conducano lo sguardo dell’estraneo fin dentro la natura dell’onirico, allora si assiste a un miracolo. Di chi trasforma in segno ciò che per gli altri rimane astratto, di chi dà forma e sfumature al sogno, di chi racconta una favola intrecciata alle pennellate, che ad ogni cambio di colore si gira pagina.
Ciro Palumbo, ovvero il Pittore delle isole. Il Sogno è l’anima della sua favola pittorica, e non esiste alcuna distrazione né fascino per null’altro che non sia Utopia. Ed eccolo il suo sogno, si staglia nitido sulla tela, senza sbavature, come se non esistesse altro che la certezza della sua forma in quella precisa e puntuale visione che è l’isola immortale. Accompagnato dal sussurrio di una musa che suggerisce incanti e sorride meraviglie, Palumbo tesse la trama della sua favola che tutta gira intorno allo scoglio, definendone i contorni e limandone la roccia, inaccessibile e lucida fortezza del sogno. L’artista come un viaggiatore su una nave sospesa che salpa e naviga senza timone alcuno, e l’isola, la meta prima e ultima, come visione in grado di nutrire e riempire occhi cuore e volontà, col suo carico di mistero e ammiccante speranza che chiama a sé. E il sogno si trasforma, perde e acquista segni e diventa isola lontana, zolla di terra calda che accoglie, roccia scoscesa e assurdamente in bilico sull’immobilità dell’acqua, torre dei giochi, torre di Babele. Mai la stessa isola quella di Palumbo, eppure sempre imprescindibilmente la sua. Sulle tele del pittore di Giaveno la favola prosegue lenta e inesorabile, e sulla nuova pagina, l’abbraccio mistico e consolatorio tra roccia e natura diviene metafisica visione di architetture distorte, strutture classicheggianti la cui pienezza inquieta. Il delirio del pittore si sublima in questa ultima fase di produzione in costruzioni lucide e circolari, talvolta metalliche, che sembrano riprodurre un movimento a spirale, movimento di un vortice che attrae e insieme respinge con la sua forza, che alletta e allontana, anche.
L’isola che ci appare è superba, nessun bisogno di acqua a significare l’essenza di quel che si vede, nessun bisogno dell’elemento primo che purifichi in un dipinto in cui tutto è sanguigno, come il cielo spesso di pennellate color porpora, alba e tramonto, principio e fine, e le inquadrature angolari di un occhio allucinato. E nella sua allucinazione, le torri e i Colossei che si schiudono per l’eventuale ingresso o si proteggono e con loro il segreto che custodiscono, diventano scenografie di un teatro sull’acqua, fondali lucidi e rocciosi dietro cui si celano quinte insondate; teatro che accoglie sogni, balocchi e speranze e contemporaneamente li respinge, così come all’isola si arriva con la nave carica di desiderio e aspettative, e dall’isola si va via, stanchi o appagati, ma sempre pronti per un altro viaggio, ennesimo viaggio.
Quelle che tratteggia il pittore delle isole, Palumbo, col suo instancabile tratto preciso e allusivo al tempo in cui nasceva l’epos, sono scene di incantevoli mondi paralleli, possibili inquadrature di realtà mentali il cui fascino forza l’occhio a seguire i percorsi disegnati. Incanto e rifugio, necessaria solitudine, porte di una città magica che ci è permesso solo intravedere e, nella penombra, già fremiamo per l’idillio.
Luca Motolese, in arte Akira Zakamoto.
Arte dai colori brillanti, la sua, su supporti quadrati, sempre della medesima dimensione, e gli elementi ritornano, puntuali, poiché suoi intimamente, come un sogno familiare che ricorre e non sorprende, accogliente nel circolo delle visioni; l’artista sembra trasporre sulla tela il negativo di miraggi notturni, fotografati nell’istante della rivelazione che apre gli occhi, anche nel sonno. Pittura senza filtri, varco nella mente nella piena fase allucinata in cui la visione si manifesta trepidante e vera. E così eccole, le stelle che illuminano, le pietre sospese nel vuoto, astronavi che brillano di scie vivifiche in una dimensione che nulla ha di reale. E in primo piano, con lo sguardo fisso in quello dell’osservatore, volti di angeli mostrano la via del possibile, indicando l’isola dell’eterna beatitudine, il pianeta su cui l’uomo troverà salvezza, sempre viaggiando, personale esodo.
C’è un universo pieno nelle tele dell’artista e dietro le immagini, vivide, una filosofia dell’esistenza che traspare e si manifesta attraverso quadri-racconti ricchi di segni, allusioni, trame che mai si esauriscono alla sola occhiata fugace. Il pittore torinese dal nome orientale imposta la sua pittura, tutta, sul senso di un contatto con un altro mondo, ponte che attraverso la deliziosa ignoranza di bambini-Maestri e di creature angeliche ancora non contaminate, permette all’uomo di atterrare nel non-luogo, dove la bellezza può essere assaporata e colta, in una dimensione priva di condizionamenti. Anche per Zakamoto, come per Palumbo, è Utopia.
Quando due pittori si uniscono nel segno dell’onirico si assiste a un miracolo, dicevamo. Si assiste alla costruzione di un’inespugnabile fortezza del sogno, alla volontà di delineare marcati i confini di un limbo in cui la creazione è condivisa e il passaggio verso il non-luogo è offerto e raccontato. Ed è questa la storia che in una torre a Rivoli verrà narrata a settembre, attraverso l’esposizione di dipinti i cui differenti linguaggi Palumbo-Zakamoto parleranno della stessa visione altra. La Torre della Filanda, dal 23 settembre al 1 ottobre diviene infatti luogo sacro in cui dipinti e realtà indefinibili, al limite tra arte visiva e uditiva, coinvolgeranno il pubblico in un viaggio percettivo dalle sfumature sonore e tattili. Dove gli angeli di Zakamoto vivranno, sorridenti, tra le rocce delle isole di Palumbo, nelle intoccabili Roccaforti del sogno.
La metafisica dei colori di Ciro Palumbo
Quaranta opere, quaranta dipinti dell’artista Ciro Palumbo per continuare il viaggio lungo i microcosmi sospesi, isole cromatiche che richiamano l’occhio e lo trascinano nel labirinto simbolico delle tinte. Tutto è colore sulle tele del pittore, ogni immagine dipinta a olio o a tecniche miste racconta una storia che si nutre di segni e simboli, di tratti netti e insieme sfumature che si perdono nell’inconscio e sollevano interrogativi, veicolati dall’uso di accostamenti cromatici che ritornano come suggestiva cifra pittorica.
A partire dal 10 ottobre 2007, la galleria di Palazzo Coveri, a Firenze, diventa alcova artistica, luogo di passaggio dal reale al magico in cui si celebra la funzione mistica del colore, anello di congiunzione tra terra e cielo.
Di fronte alle tele di Palumbo, si assiste alla nascita cosmica di tinte che conservano il significato primigenio e insieme lo arricchiscono di aspetti personali, affondando l’essere nella storia dell’uomo prima ancora che in quella del pittore.
Così prendono piena forma drappeggi cieli giochi, a svelare incontri di pennellate che risvegliano dinamiche emozionali, a rivelare più di tutto l’identità nascosta di un Giano bifronte in cui agli aspetti esteriori corrisponde un’interiorità univoca. Rosso e Blu, nelle loro infinite sfumature, divengono protagonisti indiscussi, archetipi opposti che avvicinati vivono in un accostamento in grado di risolvere l’apparente dualismo: il colore della forza primordiale all’origine di ogni cosmogonia, principio vitale della psiche ed eroica potenza, sangue e satana, vita e morte, urla accanto al suo polo opposto, il Blu, meditativa tinta del divino, quiete ed armonia, e all’estremo, regressione e mesta chiusura.
E il risultato è un rapimento, un senso di profondo e ripetuto struggimento nostalgico di fronte allo slancio verso l’eterno che accarezza le tele di Palumbo e gli occhi degli uomini dipinti, creature mitologiche e accese di passione e delicata riluttanza.
Quaranta dipinti, a Firenze, nei quali il colore sostituisce il linguaggio nella sua patria, per un artista che sublima la percezione cromatica in esperienza interiore.
La Nave della Speranza
Comincia da Giaveno il lungo viaggio verso il mare del pittore Ciro Palumbo.
E quando lo raggiunge, il mare, il pittore delle isole non torna più indietro. Sceglie acqua salvifica per colmare i sensi, inondarli, e ripropone, studiando e scomponendo, ossessioni metafisiche, deliri utopici, in cui è forte l’omaggio al mito greco e si colgono, sempre nuove, le atmosfere dei De Chirico, Savinio, Magritte.
Un racconto velato quello del pittore, perché l’occhio subito intuisce che gli elementi sulla tela non sono casuali, ma ritornano, si inseguono, e nella loro ricorrenza assumono un significato che naturalmente si sublima in favola. Così il riferimento alla metafisica assume piena espressione nel racconto onirico costellato di isole improbabili, architetture distorte, esasperate, assemblaggi di giochi dagli accesi colori; e la matrice personale di Palumbo riveste e lega in veste nuova le immagini mentali donando loro un’identità, una storia che di quadro in quadro si arricchisce e strega con la continuità del C’era una volta. Così nella favola pittorica che è cominciata ma non conosce tempo, in una trama che vibra dietro le pennellate, appare la Nave della speranza, protagonista e sorella dell’altra narrata nel prezioso “Racconto dell’isola sconosciuta di José Saramago. E adesso sembra di vederla quella barca, tradottasi magicamente dalla pagina scritta sulla tela, alla perenne ricerca di un’isola sconosciuta che è insieme mistero e sogno, miracolo nato da tempo immemore e insieme subitanea visione di occhi assetati. Lucente di un’aura magica si libra in volo contro ogni legge di ragione e gravità, colma del carico eccezionale dei balocchi che porgono ulteriore omaggio all’onirico, alla dimensione fantastica e priva di filtri adulti in cui ci culla il pittore-aedo. Innumerevoli vele e palloni aerostatici catturano aria: la Nave della speranza vuole volare, deve necessariamente volare, gonfia di un vento impetuoso che sconvolge e permette, dietro tende che si sollevano d’incanto, di scorgere l’infinito cui anela. Fin dove l’occhio si spinge, non esiste orizzonte privo di isola. Stessa isola o diversa isola, spiata e intravista da angoli opposti; ma è sempre Lisolaimmortale il cuore del dipinto che pulsa potente sulla tela, in quell’incontro surreale tra natura ebbra di vento, e roccia immobile come un monito, incontro che riempie. Poiché, se non nella storia di Saramago, nei dipinti di Palumbo “l’uomo che voleva una barca” quell’isola la vede, la assapora e vi approda, superando per gradi, di tela in tela, la distanza emozionale che allontana il reale dal sogno, che protegge il cuore dallo schianto di fronte al raggiungimento dell’utopia. Così nelle sue tele il pittore la avvicina, Lisolaimmortale, la studia, ci gira intorno, approfondendone angolazioni e cavità, scorgendovi scogli improbabili o Colossei scolpiti in una roccia lucida, in cui conquista il gioco di colore e la struttura che si scompone, crolla in pezzi. In un climax di pathos, la visione sulle tele si esaspera in forme monumentali inquietanti, il cui cupo silenzio è rotto dal movimento di una natura che riscalda l’immagine; cieli e cipressi vivi di passione sembrano voler riconquistare uno spazio sterile, oppure arretrano o lottano, mentre la nave che ha già speso il suo tempo si allontana da quell’isola incupita, smaniosa di un nuovo viaggio, nuovo entusiasmante viaggio. Come il suo Icaro senza ali ma con un’isola per cappello, Palumbo sogna e scompone il sogno, mescola tecnica e concetto, vola e riatterra nel suo atelier di montagna, riempiendo dipinti e occhi di un mare segreto. Che si scopre e ammira nel nuovo show-room sotto la stanza in cui nascono le idee, dove guidati dall’artista si viaggia sulla nave e ci si appropria dei balocchi, ci si sprofonda, da farli cadere. Non solo a Giaveno, il dialogo continuo con il pittore si perpetua e arricchisce sul sito, dove convivono vecchie e nuove isole nell’evoluzione magica e instancabile che appartiene a quest’uomo che ancora ama sognare.
1 commento:
Salve mi chiamo Marni e scrivo per conto di supereva di cui curo la guida dei sogni...volevo informarla che ho utilizzato l'immagine di un suo quadro per uno dei miei articoli sui sogni lo troverà qui
http://guide.supereva.it/sogni/interventi/2008/07/335560.shtml
se la cosa le dispiace deve solo scrivermi e provvederò a rimuoverla..distinti saluti marni sogniesegni@supereva.it
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